, , , , , , ,

KOI (Intervista a Lorenzo Squarcia)

Nel 2017 ero a Tokyo e, insieme a Mia san, decidemmo di partire per Sukagawa, nella prefettura di Fukushima.
Non era la tappa di uno di quei macabri tour di visita ai luoghi del disastro del 2011: la mia amica mi aveva convinto ad andare proprio lì perché voleva fare qualcosa per le persone che ancora ci vivevano e che lei conosceva.
E anche il semplice arrivo di visitatori era considerato un atto di solidarietà, un piccolo gesto che – per quanto possibile – li faceva felici.
Ricordo la signora Kyoko che aspettava il nostro arrivo alla fermata del pullman con un cesto di fragole.
Erano solo per me. Ed erano tantissime.

“Sai, io ho una piccola azienda agricola e in questi anni nessuno ha più voluto i nostri prodotti”.

Non sapevo cosa risponderle. Quelle fragole erano così dolci e tristi da lasciarmi senza parole.
Mentre io mangiavo le fragole, il regista Lorenzo Squarcia girava “Koi”, un documentario straordinario e sensibile ambientato tra la città di Kesennuma e Onagawa.

Racconta la storia di Yasuo Takamatsu e Tomohiro Narita, due persone che appartengono a mondi completamente diversi ma che gravitano attorno a un dolore comune.
Sono passati dieci anni dall’11 Marzo 2011. Il terremoto, lo tsunami e il disastro nucleare hanno lasciato ferite che sanguinano ancora.
Ne ho parlato con Lorenzo Squarcia.
Ecco cosa ci siamo detti:

 

Come è nato questo documentario?

«
Tutto è nato da una ricerca iniziata nel 2017 per il mio progetto di tesi in Cinema. Raccoglievo informazioni sulle zone di esclusione di Fukushima e sulle persone che ancora vivono lì e che non vogliono lasciare le proprie case.
Così ho trovato il video reportage di un giornalista inglese sulle città fantasma vicine alla centrale nucleare e mi ha colpito il punto in cui incontra un gruppo di persone che stanno setacciando la spiaggia. Era il gruppo di Narita, i Support the Underground, che stava cercando i resti dei dispersi dello tsunami.
Mi è sembrato di rivedere le stesse scene di “Nostalgia della Luce”, documentario diretto da Patricio Guzmán, che racconta dei desaparecidos in Cile durante la dittatura di Pinochet e delle loro famiglie che ne cercano i resti nel deserto di Atacama.
Così ho pensato potesse essere interessante girare un documentario su Narita e il suo gruppo di bikers tatuati.
Le mie ricerche mi hanno portato poi a un articolo del New York Times che parlava di Yasuo Takamatsu, un uomo che aveva preso il brevetto da sub per cercare il corpo di sua moglie scomparsa in mare e che nelle sue immersioni recupera i resti dei dispersi.
Avevo trovato questi due personaggi, due uomini socialmente molto diversi, che facevano la stessa attività via mare e via terra e ho deciso che sarebbero stati i protagonisti del documentario.»

Come sei riuscito a metterti in contatto con loro?

«Questa è stata una parte difficile: non parlando la lingua mi era faticoso anche solo fare ricerche specifiche su internet per trovare i loro contatti.
Un giorno però la fortuna ha voluto che una mia compagna di Accademia passasse per un incontro nello studio dove lavoravo, accompagnata dal padre giapponese.
Così, mentre aspettava che la figlia finisse, gli ho parlato del mio progetto. Lui, interessato e in modo molto gentile, mi ha offerto aiuto. Tempo un paio di settimane ed era riuscito a contattarli e convincerli a partecipare al mio documentario.»

Koi documentario

I giapponesi non sono un popolo particolarmente aperto e incline alla confidenza, ma sembra che tu sia riuscito a instaurare con loro un legame molto intimo. Come li hai portati a mettere così a nudo i loro sentimenti davanti alla telecamera?

«Alla base di ogni documentario c’è il rapporto con l’attore sociale.
Ognuno è diverso per via della sua storia e della realtà che racconta. Per questo c’è bisogno di creare un rapporto di fiducia, il che non è stato facile in così poco tempo. Noi infatti siamo stati solo un mese lì con loro.
Abbiamo iniziato pian piano con riprese semplici della loro quotidianità così da non stravolgere la loro routine (cosa importantissima per un giapponese), fino ad arrivare alle interviste più intime negli ultimi giorni di permanenza, quando ormai ci conoscevamo abbastanza.
Con Narita è stato più semplice poiché è una persona aperta e amichevole, mentre con Takamatsu è stato un processo molto più lento e delicato, soprattutto per il suo coinvolgimento emotivo.»

Nel documentario mi sembra siano raccontate le differenti spinte che portano una persona a dedicarsi al volontariato: da un lato la ricerca di riscatto sociale, un sentirsi comunque parte di una comunità anche se le scelte di vita hanno portato a starne ai margini; dall’altro una motivazione più personale e privata.
È valida questa lettura?

«Sì, assolutamente. Come raccontano tutti gli STU (Support the Underground), ognuno di loro ha un motivo personale per aiutare gli altri, ma facendo gruppo hanno formato una famiglia che li porta ad aiutarsi anche tra loro nella vita quotidiana.
Il loro stare ai margini della società è venuto meno nel momento in cui si sono interfacciati con le persone in difficoltà. Persone che li hanno visti e accettati come mai avrebbero fatto prima… Non subito ovviamente, ma una volta capito che erano lì per aiutare davvero.»

Koi documentario tsunami

Nel documentario Narita dice di avere tatuata sulla schiena la maschera di un demone. E dichiara che tutti abbiamo una parte oscura ma che in fondo lui ha un cuore buono. Chi ti ha più emozionato fra Narita e Takamatsu?

«Sono due persone totalmente diverse e diversamente affascinanti. Entrambi raccontano storie importanti, che secondo me insegnano molto e dalle quali bisognerebbe prendere esempio. Takamatsu è molto forte emotivamente per via della sua vicenda drammatica, ma questo non toglie a Narita la sua semplicità e onestà nel condividere con noi le sue emozioni e la bellezza dei suoi gesti verso il prossimo.»

In questo documentario emergono alcuni degli aspetti più critici dell’organizzazione sociale giapponese. Penso al rigido rispetto delle indicazioni delle autorità anche quando queste sono in evidente contrasto con gli accadimenti contingenti.

«Siamo abituati a pensare che il Giappone sia il luogo dove tutto funziona perfettamente. Ma ho capito che a volte la stessa perfezione è la causa dei problemi.
Nel documentario “Fukushima: A Nuclear Story”, Pio d’Emilia lo spiega benissimo quando dice che il Giappone si è salvato da conseguenze di gran lunga peggiori solo perché un semplice meccanismo automatizzato di controllo del reattore NON ha funzionato.
Ecco, come ho scoperto anche io, ci sono stati avvenimenti terribili che potevano essere evitati usando il buon senso e non affidandosi ciecamente a regole discutibili.»

Che cosa hai imparato della società giapponese e cosa racconta “Koi” dei legami fra le persone e dei meccanismi della solidarietà?

«Confrontarmi con le diverse realtà sociali di Takamatsu e Narita mi ha permesso di capire l’enorme differenza umana che c’è tra i giapponesi.
In nessun altro posto, tanto meno in Italia, ho mai percepito una distanza così profonda nei legami tra persone dello stesso paese, età e cultura. Una distanza che però viene annullata nel momento in cui si ritrovano davanti a un disastro simile, dove tutti diventano fondamentali l’uno per l’altro.»

Quanto ci hai messo a girare il documentario e quali sono state le difficoltà che hai incontrato?

«La prima volta siamo rimasti un mese e abbiamo girato la maggior parte del documentario. Poi sono tornato altre due volte per filmare piccoli dettagli e per recuperare il materiale di repertorio che è presente nel film.
Questo era il mio primo lungometraggio documentario e sì, ci sono state molte difficoltà tecniche. Ma ovviamente il fattore linguistico è stato il più importante. Non conoscendo la lingua, soprattutto durante le interviste, era difficile capire su cosa concentrare l’inquadratura e quindi si andava molto d’istinto. Ad aiutarci ovviamente c’era un’interprete.»

Questo documentario è anche un viaggio fra Tokyo e le città colpite dal disastro. C’è un luogo in particolare che ti è rimasto dentro?

«Namie, una delle cittadine intorno alla centrale nucleare.
Lì tutto è rimasto come quel giorno: le case con gli oggetti ancora nella stessa posizione, gli orologi fermi e le piante che stanno ricoprendo tutto. È il risultato di una tragedia, ma è un’atmosfera surreale e affascinante. Le riprese all’inizio del documentario sono state fatte lì.»

Una delle scene più toccanti è quella dove filmi la scuola Kohara, diventata una sorta di biblioteca della memoria. Lì ci sono tutte le foto che sono state trovate. C’è un’immagine che ricordi più delle altre?

«Ce ne sono diverse che mi sono rimaste in mente perché molte fotografie sono state consumate dall’acqua in modo particolare. Come quella con il bambino che gioca a baseball, dove tutta l’immagine è corrosa tranne lui.
Ma di base le foto che ho scelto di mettere in quella sequenza sono quelle che mi hanno colpito di più.»

Koi documentario

Hai più sentito le persone che hai intervistato? Sai che reazioni hanno avuto quando si sono visti nel film?

«Assolutamente sì. Ogni volta che torno in Giappone ho il piacere di vedere Narita e cenare insieme. Takamatsu è un po’ più fuori mano ma vorrei andare a trovarlo appena possibile visto che l’ultima volta il Covid me lo ha impedito.
Entrambi si sono visti nel documentario, si sono emozionati e sono rimasti colpiti l’uno dall’altro. Sono molto grati e questo è per me davvero importante.» 

Avevi già avuto modo di lavorare in Giappone? La sensibilità con cui affronti la materia sembra rivelare una certa conoscenza del Paese e dei suoi codici sociali. Oppure è l’interesse per il tema che ti ha portato a questa lettura acuta e profonda?

«È stata per me la prima volta. Prima di “Koi” ero stato due volte in Giappone come turista, nel 2010 e nel 2015. Durante le riprese ho scoperto molte cose su questo Paese e sulla sua società grazie alle ricerche dettagliate che abbiamo fatto, ai luoghi particolari in cui siamo andati e alle persone incontrate.»

I tuoi prossimi progetti ti riporteranno in Giappone?

«Spero di sì. Ho altri due o tre progetti in mente per i quali devo cercare documentazione sul posto. Per partire sto solo aspettando che il Giappone riapra le frontiere ma purtroppo non ci sono ancora indicazioni chiare a riguardo.»

Koi manifesto
“Tutti devono ricordare quello che è successo” dice Hidekuni Uchida davanti alla telecamera.
"È difficile da descrivere a parole l'amore profondo che il signor Takamatsu nutre per sua moglie” dice Hiromi Tamura nel film.
Koi c’è riuscito.

Gtvb

Regia e Fotografia: Lorenzo Squarcia
Sceneggiatura e montaggio: Lorenzo Squarcia, Spampinato e Manuel Greco
Musiche (main theme): Angelo Badalamenti
Produzione: Jumping Flea
Koi potete vederlo su Prime Video, Google Play, Vimeo on demand e Itunes.

Foto: ©JumpungFlea